Sono sempre più frequenti nel dibattito teorico, tra sociologi, scienziati della politica, filosofi, giuristi, gli interventi dedicati alla democrazia e alla crisi della democrazia. Dahrendorf, Dahal, Eisenstad, Lukas, solo per citare alcuni autori, sono frequentemente tornati su questi temi negli ultimi anni. Da noi recentemente Zagrebelsky ha scritto Imparare la democrazia per confrontare le riflessioni dei classici con i problemi del mondo contemporaneo.
Non è in discussione ovviamente un modello politico che resta centrale qui come altrove, ma è innegabile che nella società in cui viviamo si presentano segni vistosi di contraddizioni rispetto a quel modello teorico.
Sul terreno economico, ad esempio, si ritiene improbabile che nei paesi democratici il capitalismo e l'economia di mercato possano essere sostituiti da altri sistemi. Ma quando poi ci troviamo di fronte non solo alle patologie dei grandi crolli azionari, come Enron negli Usa o Parrmalat in Italia, ma più semplicemente alle vicende fisiologiche di un grande gruppo come Telecom e dei passaggi di proprietà che l'hanno interessato negli ultimi anni è legittimo interrogarsi sul rispetto in questi casi dei classici modelli di democrazia industriale.
Non alludo tanto alle vicende ancora inspiegabili ed inspiegate delle intercettazioni illecite maturate all'interno del gruppo, quanto al fatto che in un paese nel quale esistono regole minuziose sulla disciplina delle OPA a garanzia di tutti gli azionisti, grandi e piccoli sia possibile con grande disinvoltura aggirare quei principi offrendo il controllo della società ad un prezzo (4,2 miliardi di euro) corrispondente a circa il 10 per cento del valore patrimoniale della società. Ci spiegano che tutto questo può avvenire per effetto del sistema di controllo piramidale sulla società ( le c.d. scatole cinesi), ma non ci spiegano se questa sia un'eccezione o la nuova regola.
Si potrebbe continuare parlando del fatto che le grandi imprese strategiche per un paese non debbono necessariamente essere assoggettate alla proprietà pubblica, ma solo ad un efficace sistema di regole poste a presidio dell'interesse pubblico; quando però si ricorda che i principi europei in materia di separazione societaria tra rete e gestione stentano da noi a decollare nelle sabbie mobili dei contrasti tra proprietà ed authority, anziché lamentare la mancanza di regole, si condanna o si critica l'annunciato intervento di regolazione.
Sul terreno dell'informazione, che costituisce ovviamente uno degli snodi centrali di un corretto funzionamento del sistema democratico, le anomalie del nostro paese hanno assunto ormai le caratteristiche di un vero e proprio controsistema totalmente scisso dai principi costituzionali. La Corte costituzionale non ha ormai più lacrime per piangere. Le sue decisioni sono state clamorosamente eluse. Nel 2004 l'Autorità delle comunicazioni ha certificato (sulla base di una legge equivoca) che il nuovo sistema di televisione digitale avrebbe reso anacronistiche le preoccupazioni intorno al nostro asfittico pluralismo ed invece il d.d.l Gentiloni nell'autunno del 2006 ha ufficialmente certificato che il sistema digitale funzionerà a regime solo nel 2012. Vorremmo sapere chi indennizzerà i cittadini per una così prolungata carenza di pluralismo e per una così evidente privazione del diritto all'informazione.
Evito di svolgere considerazioni sul terreno della televisione pubblica ma sono lontano dal considerare che l'attuale modello di coabitazione alla francese nel governo della RAI, figlio indiscutibile della legge Gasparri, possa essere considerato come un prototipo esportabile di indipendenza, di efficienza e di democrazia aziendale.
Si potrebbe continuare a lungo analizzando una serie di terreni sociali o anche istituzionali nei quali il modello democratico appare soggetto a forti tensioni applicative nel contrasto tra i principi teorici e la realtà delle cose.
Nei giorni nei quali diviene irreversibile il processo costitutivo del partito democratico voglio concludere ricordando un altro compito che si pone con priorità nell'agenda della politica ed è quello della democrazia interna dei partiti politici. Pierluigi Castagnetti ha opportunamente presentato su questo argomento una proposta di legge già assegnata alla Commissione affari costituzionali della Camera. Si tratta di dare attuazione ad un principio contenuto nell'art. 49 della Costituzione che richiama per l'appunto il metodo democratico per regolare il concorso dei partiti alla determinazione della politica nazionale.
Su questo terreno qualcosa si può fare indubbiamente sul piano legislativo, ma è ancora più rilevante il compito che, sul piano politico, si trova di fronte il partito nuovo che sta per nascere. Le percentuali di iscrizioni ai partiti (pur essendo quelli della sinistra tradizionalmente più elevate) sono irrisorie di fronte al numero considerevole dei votanti. Bisogna evitare in modo assoluto che nei partiti, e soprattutto nei nuovi partiti, si consolidi qualcosa di simile al modello delle scatole cinesi proprio delle società per azioni. Se le correnti assumeranno il ruolo improprio dei sindacati di controllo, i nuovi iscritti che tutti aspiriamo ad aggiungere potrebbero avere un potere ancora minore dei piccoli azionisti della Telecom. Ed allora avremo perso irrimediabilmente lo spirito delle primarie.
Ecco dunque un terreno molto concreto di azione politica, per militanti e non, da sperimentare nei prossimi mesi.
!