Pubblichiamo l'intervento dell'on. Giovanni Cuperlo del 2 luglio 2008 in Commissione affari costituzionali della Camera in merito al c.d. decreto sicurezza (decreto – legge 23 maggio 2008, n. 92). L'intervento, di cui condividiamo l'impostazione, si concentra (tra l'altro) sui profili di incostituzionalità del provvedimento, connessi agli istituti dell'aggravante della clandestinità e della sospensione dei processi in corso.
Giovanni CUPERLO (PD) osserva come da molti mesi la questione della sicurezza sia al centro dell'attenzione e dell'inquietudine del Paese e dell'opinione pubblica. Lo è per ragioni che si potrebbero definire strutturali. Dal momento che ovunque, in Europa e non solo, il tema si manifesta con caratteristiche in parte sconosciute e come conseguenza di un incremento progressivo dei flussi migratori. Ma lo è anche perché una successione di gravi episodi di cronaca, come la tragedia avvenuta a Tor di Quinto lo scorso anno, hanno accentuato il profilo di un vero e proprio allarme sociale e ciò ha reso più urgente, sino dalla passata legislatura, il varo di misure ordinarie e straordinarie di contrasto della criminalità diffusa.
Per molti versi la stessa campagna elettorale ha fatto dell'argomento uno dei perni del confronto. A seguire l'attenzione più o meno costante dei media, i ripetuti sondaggi d'opinione, una certa emotività indotta dalla cronaca hanno consolidato questo primato.
E dunque non vi è stupore per il fatto che il Governo abbia ravvisato proprio su questo terreno l'urgenza di un intervento ambizioso nella portata e negli effetti previsti. Per la precisione un decreto legge e un disegno di legge che compongono – come più volte è stato ricordato – un quadro d'insieme della strategia che l'Esecutivo e la maggioranza hanno scelto di seguire su un fronte così sensibile.
Da parte dell'opposizione non c'è stato su questo un atteggiamento pregiudiziale. Ciò non solo per la scelta del Governo di mutuare una serie di norme e soluzioni che già erano contenute nel cosiddetto pacchetto Amato, che solo l'interruzione anticipata della legislatura ne ha bloccato l'iter. Sottolinea come l'assenza di un atteggiamento pregiudiziale veniva dal riconoscere nel problema quei caratteri di gravità che giustificano, e non da oggi, una specifica iniziativa del Governo e del Parlamento. Se la logica era quella di affrontare seriamente le cause di un allarme sociale così diffuso, si poteva ritenere giusto, sia pure partendo da diverse convinzioni e impostazioni, contribuire alla messa a punto di una legislazione efficace e adeguata ad affrontare in tempi certi l'emergenza in atto.
Sottolinea come il gruppo del Partito Democratico avesse immaginato di farlo prima, sulla base di una responsabilità di Governo e come fosse intenzionato a farlo adesso, nello spirito di un'opposizione che alla convenienza di parte sceglie di anteporre, come è giusto che sia, l'interesse del Paese e dei cittadini.
Ricorda queste cose per dire che da parte del Partito Democratico è stato fatto tutto il possibile.
Finita la campagna elettorale, si è tentato di ricondurre nel luogo deputato, che è il Parlamento, una discussione seria su una materia che per tante ragioni dovrebbe essere brandita come arma per la propaganda di parte. In primo luogo perchè affrontare il tema della «sicurezza» – non dal punto di vista culturale o della sociologia ma sotto il profilo delle norme – significa misurarsi con la sfera del diritto e della congruità delle soluzioni prescelte con il dettato della Costituzione e con i principi di tutela e dignità della persona, che nel corso degli anni sono venuti affermandosi e consolidandosi nella cornice del diritto interno e internazionale. Mutuando un'espressione, che ricorda essere propria di altri campi, rileva che si tratta di materie dove sempre dovrebbe valere un principio di precauzione al fine di evitare che lo slancio della propaganda (più o meno giustificabile quando ci si avventura alla ricerca dei voti) si tramuti, a urne chiuse, in una pessima prassi legislativa.
Osserva quindi come su queste basi si siano attese le deliberazioni del Governo e sulla base di queste premesse tali determinazioni siano state esaminate e valutate, traendone un giudizio fortemente negativo e, come è stato detto in alcuni precedenti interventi, di grave allarme. Il giudizio negativo è dovuto al contenuto delle norme sottoposte al Parlamento, alle procedure che le hanno accompagnate, alle loro implicazioni che vanno ben oltre i confini limitati del tema e finiscono coll'investire principi fondamentali dello Stato di diritto a partire dal concetto di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.
Evidenzia come le questioni di fondo, a questo punto, siano note e siano principalmente due.
Da un lato, l'introduzione di una specifica aggravante nel caso un reato di qualsiasi natura venga compiuto da un immigrato irregolare. Dall'altro la disposizione relativa alla sospensione per un anno dei procedimenti in corso per reati compiuti prima del giugno del 2002.
La prima norma, come è stato ripetuto più volte anche durante il dibattito al Senato, prima d'essere inefficace sul piano pratico è del tutto irragionevole e discriminatoria. Essa confligge con la Costituzione, con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, con la stessa Dichiarazione universale dei diritti della persona.
Lasciando da parte il tema, pure rilevante, del cosiddetto reato di clandestinità (presente nel disegno di legge), nel senso dell'impatto che avrebbe una norma simile sul nostro apparato giudiziario chiamato a verificare la condizione soggettiva degli oltre settecentomila immigrati irregolari presenti sul territorio, il Governo, per voce del ministro Maroni, ha più volte rassicurato sull'applicazione ragionevole della norma e dunque sul suo effetto non retroattivo. A conferma del carattere puramente «dimostrativo» della norma stessa. Aspetto questo per nulla banale e sul quale occorrerà ritornare.
Restando al tema dell'aggravante, che è quello più prossimo perché inserito nel decreto in esame, si prevede che questa venga applicata agli «irregolari», vale a dire anche a quei cittadini che, entrati in Italia regolarmente con un permesso turistico (secondo stime della Polizia sono il 90 per cento degli ingressi) e magari avendo acquisito un primo permesso di soggiorno per motivi di lavoro, hanno visto scadere quel permesso, come spesso accade, per ragioni connesse alla burocrazia o anche a forme di impiego non continuative.
Sottolinea quindi come tali soggetti non siano dei delinquenti. Si tratta di gente semplice, onesta, perbene, Che a volte è già stata raggiunta da altri familiari e che spesso porta sulle spalle la responsabilità di una famiglia e la crescita di uno o più bambini. Certo, sono persone che hanno anche la caratteristica, quasi sempre molto dolorosa, di essere povere. È quella povertà e non il piacere dell'avventura, che li ha spinti verso il loro disperato viaggio della speranza.
Ricorda come vi siano molti modi per parlare a queste persone. Ma al di là dei modi c'è una questione di fondo che riguarda la concezione che si ha dei loro diritti e naturalmente anche delle loro responsabilità. Si può seguire la linea che di fatto alcune norme di questo decreto teorizzano: forzare sino all'estremo il tasto della repressione. Ciò anche a costo di violare principi fondamentali e sino a concepire l'irregolarità come un'aggravante in sé, al pari del compiere un delitto con crudeltà o efferatezza, o per motivi abietti.
L'aggravante in questo caso sarebbe nei fatti la povertà, con ciò che ne consegue sotto il profilo culturale della norma che si sceglie di introdurre. In altre parole, come è stato scritto autorevolmente: «l'aggravante è costruita su una condizione soggettiva priva di nesso con il reato commesso. Si ricorre allo strumento penale (per penalizzare l'irregolarità del soggiorno) in modo distorto rispetto alla sua funzione».
Evidenzia quindi come, prima d'essere una norma, quella espressa a proposito nel decreto sia una «linea», una «strategia» ispirata a una concezione punitiva che individua nel clandestino (o nell'irregolare) una categoria del «nemico». Sottolinea come su questo paradigma specifico (il «diritto penale del nemico» appunto che viene immesso in un circuito di commisurazione sanzionatoria parallelo a quello ordinario, caratterizzato però da un maggiore tasso repressivo), in anni recenti si è alimentato un dibattito ampio sia nella dottrina penalistica europea che statunitense.
La conseguenza nel nostro caso è che l'ordinamento previsto dalla norma in questione distorce la funzione dello strumento penale che viene piegato a sottolineare disvalori soggettivi.
In buona sostanza, la previsione di aumenti di pena ancorati alla condizione di irregolarità finisce col trasformare l'irregolare in una tipologia di «autore» valutato meritevole di un trattamento differenziato in senso repressivo. Ma in tal modo il fulcro del giudizio penale si sposta dal «fatto» all'«autore» con una conseguente rottura dell'equilibrio imposto dalla dimensione «costituzionalmente orientata» del diritto penale in cui il «disvalore oggettivo», nel senso del disvalore dell'azione e dell'evento, è antecedente rispetto al «disvalore soggettivo», costituito dai criteri personali della imputazione di responsabilità. Ribadisce che si tratta di una linea, di un'impostazione culturale, che il suo gruppo non condivide.
Diverso sarebbe favorire quel processo di integrazione degli immigrati che arrivano in Italia per lavorare e che cercano di vivere in condizioni di dignità e rispetto delle regole. Occorrerebbe farlo aiutandoli in questa loro fatica, non peggiorandone la condizione. In questa ottica forse sarebbe più ragionevole allungare i termini dei permessi di soggiorno per motivi di lavoro e introdurre eventualmente un permesso di soggiorno per la ricerca del lavoro e insistere su quella linea di pieni diritti di cittadinanza, compreso il diritto di voto alle elezioni amministrative per gli immigrati regolari.
Anche in questo modo si agisce sul fronte della repressione nei confronti di chi delinque. Sull'immigrazione clandestina che delinque o che rifiuta di declinare le proprie generalità per sfuggire a uno o più decreti di espulsione bisogna agire con fermezza, ma senza immaginare che le soluzioni simboliche o i messaggi di propaganda possano davvero facilitare l'operato delle autorità di pubblica sicurezza o della magistratura.
La seconda norma oggetto delle critiche più severe è la disposizione che sospende per un anno i procedimenti in corso per fatti antecedenti al giugno del 2002. Anche in questo caso la materia è nota, ma merita qualche osservazione aggiuntiva.
Rileva quindi come sia interessante la ragione della polemica. Si è detto più volte negli anni scorsi, a suo giudizio lo si è detto sulla base di argomenti convincenti, pur sottolineando che questa era e rimane una valutazione di parte, che l'attuale capo del Governo a più riprese ha piegato o cercato di piegare la legge ai propri interessi. Spesso anche interessi contingenti. L'opposizione sosteneva questa linea. Mentre ovviamente Governo e maggioranza la negavano. Questa volta sembra che le cose stiano diversamente.
Con un salto di qualità, che è certo negativo per le conseguenze che determina ma contiene almeno il pregio della chiarezza, non è l'opposizione ad agitare il sospetto di una legislazione di favore per il premier, ma è il premier stesso. Ricorda a tale proposito la lettera personale inviata da questi al Presidente del Senato, con la quale sono state rivendicate le motivazioni a sostegno della norma contestata. Ricorda che nella lettera si afferma espressamente che la sospensione di un anno consentirà alla magistratura di occuparsi dei reati più urgenti e nel frattempo al Governo e al Parlamento di porre in essere le riforme strutturali necessarie per imprimere una effettiva accelerazione dei processi penali, pur nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali. Legge pertanto alcuni passi della lettera come quello in cui il Presidente del Consiglio afferma che i suoi legali lo hanno informato che tale previsione normativa sarebbe applicabile ad uno fra i molti processi, definiti fantasiosi, che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di lui per «fini di lotta politica». Ricorda che nella lettera questi dichiara di aver preso visione della situazione processuale e di aver potuto constatare che si tratta «dell'ennesimo stupefacente tentativo di un sostituto procuratore milanese di utilizzare la giustizia a fini mediatici e politici, in ciò supportato da un Tribunale anch'esso politicizzato e supinamente adagiato sulla tesi accusatoria.».
Rileva come la scelta di contenuti e procedure non abbia precedenti analoghi nella vita istituzionale del Paese. Lo stesso presidente del Consiglio ha dichiarato successivamente che egli non intende avvalersi di tale norma in relazione al procedimento citato nella lettera al presidente del Senato. Ma ciò non rende meno rilevanti la scelta compiuta nel merito, la procedura adottata attraverso un emendamento che altera il profilo di un decreto già controfirmato dal Capo dello Stato e infine le ricadute che tutto ciò è destinato a determinare.
Cita altresì la previsione annunciata dall'Associazione Nazionale Magistrati in una conferenza stampa di qualche settimana fa, secondo cui l'emendamento che sospende per un anno i procedimenti in corso per fatti precedenti al giugno del 2002 bloccherà in un sol colpo centomila processi. Il numero non deve apparire spropositato o anche solo eccedente al quadro effettivo delle conseguenze. Sottolinea di non essere in grado di dirlo e di essere in attesa di conoscere le previsioni che a questo proposito sono state richieste ministro Alfano. Ma resta la sostanza. Rimane una norma che, a regime, avrebbe l'effetto di sospendere decine di migliaia di procedimenti giunti, in alcuni casi, alla soglia della sentenza di primo grado per reati che sono parte costitutiva di quell'allarme sociale che è all'origine dichiarata del provvedimento in esame. Cita quindi solo alcuni esempi: estorsione, rapina e furto in appartamento, stupro e violenza privata, bancarotta fraudolenta, sfruttamento della prostituzione, ricettazione, detenzione di materiale pedo-pornografico, omicidio colposo per colpa medica, maltrattamenti in famiglia e molestie, traffico di rifiuti, incendio e incendio boschivo, fino al reato di omicidio colposo per inosservanza delle norme sulla sicurezza stradale che l'articolo 4 del decreto affronta nei termini di un inasprimento delle sanzioni salvo poi negare, nello stesso provvedimento, la priorità nel trattamento di quella fattispecie di reato.
Rileva come, se ci si sforza di entrare nei panni e nello spirito del Governo e della maggioranza, la ratio di questa norma emerga con tutta la sua linearità. La norma in sé non trova alcuna giustificazione né supporto logico o razionale al di fuori della specifica contingenza che la origina (e che il Capo del Governo con un atto di oggettiva sincerità ha verbalizzato nella sua lettera al presidente Schifani). Ma il primo effetto che si determina è una negazione in radice (o una contraddizione logica) con quel principio di norma-simbolica che anche autorevoli esponenti del Governo hanno rivendicato come ispirazione del pacchetto complessivo.
Ribadisce che il Partito Democratico ha fatto la sua parte: l'ha fatta al Senato e la farà alla Camera, presentando una serie di emendamenti che riconfermano una posizione non pregiudizialmente ostile. Certamente si chiederà una correzione radicale o la soppressione di norme non condivisibili per ragioni di principio, ravvisando per altro in alcune di esse più di un elemento di incostituzionalità, ma anche sollecitando la maggioranza a recepire soluzioni che vanno unicamente nella direzione di rendere più efficace, coerente e incalzante il contenuto del provvedimento.
Sulle questioni di maggiore sostanza la maggioranza al Senato ha ritenuto di procedere per la propria strada, incurante delle richieste e degli appelli alla ragionevolezza che provenivano dall'opposizione. Auspica che alla Camera questo atteggiamento possa essere diverso. Nell'interesse di una buona normativa, di quella separazione dei poteri che è tratto costitutivo dell'ordinamento democratico, e della tutela stessa dello stato di diritto.
Pur rendendosi conto che non si vivono giornate particolarmente favorevoli a un clima, non tanto di collaborazione su questioni strategiche per l'assetto democratico del Paese, ma anche solo di dialogo e di recepimento della quota di verità e realismo presente nelle posizioni dell'altro, auspica e spera che una volontà residua di questo sforzo di obiettività rimanga tra quei colleghi della maggioranza che si avvedono dei pericoli presenti in alcune delle norme contenute nel provvedimento in esame. Negare la realtà e nascondersi i problemi non è quasi mai una buona pratica. Al di là dei numeri che si possiedono. Perché i rapporti di forza, quelli sì dipendono dai numeri, ma il rispetto del buon senso e, cosa più preziosa, del diritto e dei principi costituzionali, non sono una merce disponibile per questa o quella maggioranza. Sono un patrimonio di tutti. E della democrazia in primo luogo. Sarebbe saggio rammentarcene sempre.
!