Solo fino a qualche giorno fa non sembravano esservi molti dubbi sul fatto che la dichiarazione di decadenza di Berlusconi dovesse essere materia di stretta competenza del Senato. Sia attraverso il preliminare intervento della Giunta, sia poi dell’Assemblea, ai sensi dell’art.66 della Costituzione. Si sono levate successivamente alcune voci autorevoli che hanno prospettato un intervento della Corte, a mio giudizio molto problematico in termini di ammissibilità.
Riepiloghiamo fatto e diritto. La condanna in via definitiva di Berlusconi a 4 anni di reclusione per frode fiscale inflitta il primo agosto dalla Corte di Cassazione ha reso applicabile per la prima volta il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità emanato in attuazione della legge anticorruzione 6 novembre 2012, n. 190.
In base all’art.1 del decreto legislativo non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore coloro che hanno riportato una condanna definitiva a pene superiori ai due anni di reclusione per tutta una serie di reati, tra i quali rientra per l’appunto il reato commesso da Silvio Berlusconi.
Normalmente l’accertamento della condizione di incandidabilità alle elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica comporta la cancellazione dalla lista dei candidati e questo effetto si determina per la durata di 6 anni a partire dal momento della condanna.
Qualora una causa di incandidabilità, come in questo caso, sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione. A tal fine le sentenze definitive di condanna di cui all’articolo 1, emesse nei confronti di deputati o senatori in carica, sono immediatamente comunicate, a cura del pubblico ministero presso il giudice indicato nell’articolo 665 del codice di procedura penale, alla Camera di rispettiva appartenenza perché essa assuma le determinazioni di competenza. Come aveva in un primo momento e opportunamente sottolineato Valerio Onida: si trattava di una decisione priva di ogni discrezionalità. Una semplice presa d’atto dell’esistenza dei presupposti di legge.
Ora per ragioni, a me pare, più collegate ad opportunità politica che per considerazioni strettamente giuridiche, da parte di Violante e dello stesso Onida, si è prospettata la possibilità che la Giunta per le elezioni del Senato o in alternativa l’Assemblea, agendo come un organo giurisdizionale, possa sollevare davanti alla Corte costituzionale, in via incidentale, questione di legittimità costituzionale delle norme sopra richiamate. Sia Violante che Onida dichiarano di non avere dubbi sulla costituzionalità del testo, ma ritengono che questa procedura potrebbe essere più rispettosa del diritto di difesa. L’effetto sicuro di questo intervento sarebbe comunque quello di prendere tempo perché si dovrebbero inevitabilmente attendere diversi mesi prima di una decisione nel merito della Consulta.
Personalmente nutro molti dubbi sulla possibilità giuridica di seguire questa strada.
La giunta per le elezioni di Camera e Senato, operando nello schema dell’art.66 Cost., non ha mai ritenuto di sollevare questione di costituzionalità davanti alla Corte. Direi che questo atteggiamento è del tutto coerente con la logica della norma costituzionale che attribuisce questa materia alla competenza delle Camere, come avviene anche in altri ordinamenti a tutela dei valori di autonomia dell’organismo parlamentare. Nulla esclude che si possa modificare quello schema, attribuendo un ruolo alla Corte, come io stesso avevo proposto nella scorsa legislatura, con un ddl di modifica costituzionale, ma a Costituzione invariata è impossibile parlarne.
Il fatto poi che la Corte costituzionale abbia riconosciuto, in alcune decisioni, la natura giurisdizionale del modo di procedere della giunta per le elezioni, non cambia le cose. Quelle affermazioni hanno il valore di affermazioni incidentali e comunque riguarderebbero solo il profilo oggettivo dell’attività mentre l’art.23 della legge n.87 del 1957 richiede il duplice requisito soggettivo ed oggettivo (“nel corso di un giudizio davanti ad un’autorità giurisdizionale”) per adire la Corte. Questa caratteristica di terzietà e di imparzialità non si rintraccia certo nella Giunta e a maggior ragione nell’Assemblea.
Sarebbe infine assai singolare, sul piano della valutazione della fondatezza della costituzionalità, che una Camera che ha approvato da pochi mesi il provvedimento normativo in questione senza sollevare il minimo dubbio di costituzionalità (come sarebbe stato ben possibile), si “svegli” ora con questa folgorazione. Ha ben ragione il sen. Casson nel sottolineare che un’organo parlamentare non si rivolge impropriamente al giudice costituzionale per interpretare una legge, ma provvede direttamente a modificarla, se crede.
Impossibile poi configurare, al di là di ogni ipotesi di concreta praticabilità, un conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato perché sarebbe una sorta di auto conflitto che non è certamente ipotizzabile, neppure tra le più fantasiose ricostruzioni.