Nutro personalmente molti dubbi sulla riforma costituzionale del Senato e del Titolo V della Costituzione.
Condivido innanzitutto le considerazioni preliminari svolte da Alessandro Pace nel suo articolo di oggi su Repubblica che considera dopo la Sentenza n.1 del 2014 della Corte Costituzionale il Parlamento attuale inidoneo (Pace dice delegittimato) ad affrontare una riforma di così grande respiro.
In effetti leggendo solo il numero degli articoli modificati (oltre 40) ci si rende conto che si tratta della più imponente riforma costituzionale mai intrapresa; di poco inferiore a quella del centrodestra di Berlusconi nella XIV legislatura che però il Popolo ha bocciato sonoramente con il referendum del 2006.
Mi domando allora se proprio sia necessario tutto questo terremoto costituzionale per arrivare al risultato assai discutibile di ridurre il Senato della Repubblica ad una “Cameretta” (infatti non si chiamerebbe neppure più Senato ma solo “Assemblea”) espressione indiretta e disordinata delle autonomie locali, privo di poteri significativi e sostanzialmente ridotto ad un ruolo consultivo, se non decorativo, salvo poi attribuirgli il ruolo di concorrere alle revisione costituzionale.
E’ sufficiente per tutto questo sconvolgimento costituzionale porre la giustificazione del risparmio di un miliardo di euro. In quale paese del mondo e in quale periodo della storia i costituenti hanno posto questa prospettiva al centro delle loro riflessioni costituzionali.
E come non considerare con preoccupazione la riforma del Titolo V della stessa Costituzione che eliminando drasticamente (qualche ritocco era necessario) la potestà legislativa concorrente delle Regioni e riportando la maggior parte delle materie nella competenza esclusiva dello Stato riporta con un sol tratto di penna lo Stato delle autonomie regionali ad una situazione simile a quella del 1970. E’ vero che un bel numero di consiglieri e di gruppi regionali abbiano dato un esempio disastroso di malgoverno, ma è giusto colpire quelli, non demolire l’intero sistema delle autonomie costituzionali (art.5 e 114 Cost).
Di fronte a tutto questo occorre domandarsi allora perché per superare, come tutti siamo d’accordo, il bicameralismo perfetto non si sia scelta la strada più semplice di riprendere, pari, pari il testo approvato nella XV legislatura dalla Commissione affari costituzionali ed arrivato dopo oltre un anno e mezzo di lavoro all’esame dell’Aula della Camera dei deputati.
Su quel testo elaborato da una maggioranza di centrosinistra tutta l’opposizione si astenne e larga parte dell’Università italiana, ascoltata in audizioni parlamentari e in diversi seminari, espresse consenso.
Posso solo aggiungere che quella riforma toccava non più di una ventina di disposizioni della nostra Costituzione (la metà dunque di quell’attuale) e quando si parla di Costituzione la quantità di materia trattata non è indifferente. Chi procede alla revisione costituzionale deve usare il bisturi e non l’accetta.
Infine un’ultima considerazione. Alcuni commentatori su autorevoli giornali di oggi rilevavano con entusiasmo che la modifica costituzionale di Renzi introdurrebbe la “corsia preferenziale” per alcune proposte del Governo e prevederebbe addirittura la possibilità per il Presidente del Consiglio di “revocare” i ministri.
Ebbene queste due rivoluzionarie proposte erano contenute pari, pari in quel testo approvato nella XV legislatura e che ora basterebbe riprendere.
Per un Parlamento che se non delegittimato, certamente non si può considerare nella “pienezza” dei poteri, riprendere un testo “meditato” e già frutto di ampie convergenze politiche ed accademiche non sarebbe un atto di umiltà disprezzabile. Ma forse è chiedere troppo.